Casa Claudia

Natale famigliaEsistono case fatte di muri e di stanze, di finestre e di mobili antichi o moderni,  case pulite e ordinate, case disordinate e coperte di polvere. Esistono case piene di ricordi, cornici sbiadite appoggiate su affollati scaffali o quadri, di autori sconosciuti, appesi alle pareti.  Esistono case luminose oppure buie, nelle quali non sembra mai arrivare il giorno. E poi ci sono loro: sono le case fatte di storie, di incontri di condivisione, di forza. Sono le case che cessano di essere materiale di costruzione per diventare vita. E poi racconto.

Vi presento Casa Claudia e la sua storia, che è anche la mia. In realtà il nome sarebbe arrivato molto tempo dopo, alla fine di questo racconto. Ma fine e inizio tendono sempre ad incontrarsi. Casa Claudia è questo: il lento fiorire di un nuovo inizio. Allora occorre riavvolgere i ricordi e tornare indietro fino al giorno in cui quella casa, lontana dalla città, divenne casa nostra. Avevo tre anni, allora, e mio fratello era appena nato. Papà e mamma mi avevano portata con loro molte volte a vederla: un enorme palazzone di cemento immerso nel verde delle colline di quella periferia bolognese che iniziava a popolarsi e a prendere vita nel silenzio della campagna. I ricordi che ho sono quelli di una bambina emozionata dalla nuova cameretta, intimidita da quegli spazi ancora vuoti, che rimandavano un’eco ostile. Tutto era cantiere: c’erano, ricordo, cavi a vista, buchi nei pavimenti che mi sembravano trappole pericolose. La notte sognavo di cadervi dentro, io così piccola da riuscire ad entrarci. Ma negli occhi di mamma e papà leggevo la felicità e l’orgoglio per quella nuova conquista, quindi non poteva essere così spaventosa come sembrava a me.

Il ricordo della prima sera nella casa nuova mi fa ancora sorridere: mi rivedo seduta su uno scatolone al centro di un salone che mi sembrava enorme. Mi scappava la pipì e chiesi a papà di accompagnarmi in bagno. Lui, abituato alla mia indipendenza, rispose stupito: «Puoi andare da sola, no?». «Ma papà, io non so dove sia il bagno in questa casa!!!». Con il tempo avrei imparato a conoscerne, invece, ogni angolo: la mia camera accolse il lettino di legno verniciato di verde, costruito da papà e dove la mia bambola preferita riposava quieta; poi arrivò la villa di Barbie, sempre fatta da lui. Gli armadi erano pieni degli abiti fatti a maglia dalla mamma. Li adoravo.  Io crescevo e la casa era lì. Frequentavo gli appartamenti dei vicini, la mia amica Margherita, la casa dei nonni al piano di sopra, che un po’ cupa e oppressa da mobili antichi mi spaventava molto; passavo le ore nel giardino immenso o nel campo da tennis dove mi allenavo con il nonno, che era un discreto giocatore. Vendevo i giornalini con gli amici, raccoglievo erbe per improbabili minestre, lanciavo la palla al muro sperando di non essere rimproverata dal vicino, quello che dormiva di giorno e lavorava di notte. Lì, anni dopo, sono arrivate le mie sorelle piccole, una dopo l’altra. La casa era sempre uguale a se stessa, all’apparenza, ma a ben guardare si mostrò capace di dilatare gli spazi, spostare i muri per fare posto a nuovi arrivati. Proprio come mamma e papà. Allora mi sembrava che fosse sempre più piccola: la verità era che si faceva, al contrario, sempre più grande: sapevate che i muri sanno allargarsi per fare spazio a più amore, quando serve?

Gli anni si rincorrevano e la nostra casa invecchiava, mostrando i primi segni del tempo. E come se iniziasse a fare fatica a sostenere tutto e tutti, a poco a poco ha cominciato a vuotarsi. Lo ha fatto con la naturalezza e il silenzio di cui sono capaci gli anziani. Senza drammi, con una elegante rassegnazione. Prima sono andata via io. Poi i nonni, uno alla volta, hanno chiuso gli occhi, sereni. Anche i miei fratelli, diventati grandi, hanno iniziato nuovi percorsi di vita. Ma, quasi fosse incapace di adattarsi nuovamente, quasi troppo abituata a quei muri dilatati, la mia casa ha continuato ad essere il punto di incontro per noi, per gli amici, per chiunque avesse bisogno di una mano, di una parola, di un consiglio, o anche solo di un buon piatto di pasta.

Tutte le volte che vi entravo, e in effetti ancora oggi, ogni mio senso si risvegliava: sentivo il sapore dolce delle merende di mamma, il rumore ripetitivo e rassicurante della macchina da cucire di nonna, il profumo della cena quasi pronta, le dita che scorrevano sulle mie amate lenzuola con le mele, che non permettevo a nessuno di buttare via, lo sguardo felice e pago durante le nostre cene con gli amici; vedevo l’abito del Dott. Balanzone appena stirato, appeso a una gruccia, in attesa di essere usato ancora una volta da papà. E sentivo la sua voce impostata ripassare il discorso ufficiale tra il latino e il dialetto bolognese.

Mamma e papà avevano ritrovato un nuovo modo di vivere la nostra casa. Più silenziosa, più grande, più comoda e, tuttavia, sempre pronta ad aprire le sue porte e a rompere il silenzio di una coppia che, dopo quasi 40 anni, si ritrovava di nuovo come all’inizio. Mamma ripeteva sempre quanto fosse bello stare ancora così bene con papà. Era dolce sentirglielo dire, orgogliosa e grata.

Lei però non sapeva che quel tempo sarebbe stato così breve. Non lo sapeva nessuno. Non lo intuiva nessuno. Eppure, mamma è uscita da quella casa il giorno in cui io compivo 40 anni e non è tornata più.

Ricordo quei giorni per una quantità infinita di emozioni, sensazioni, parole, lacrime, incapacità di capire e di accettare. Ma un ricordo sugli altri si fa strada mentre scrivo: papà che, pochi giorni dopo il funerale, mi diceva piangendo: «io non voglio perdere anche questa casa». Perché, con il trascorrere della vita, tutto si trasforma ma quella casa, in quasi 40 anni, era divenuta uno scrigno, nel quale custodire ogni momento, ogni cambiamento e tutti i ricordi: il tesoro incalcolabile che proteggeva non era sostituibile, non era rinunciabile, non era negoziabile, neppure se il dolore che si provava lì dentro era immenso. Neppure se ogni singolo oggetto raccontava di lei, delle sue passioni, delle sue fragilità, dei ricordi vissuti insieme.

Ed ecco l’inizio di questa storia. Perché è qui che nasce Casa Claudia.

Non so come siano andate esattamente le cose. Ma mi piace credere che mamma sia tornata per un attimo, abbia guardato papà con quello sguardo un po’ severo che aveva ogni volta che lui era avvilito o scoraggiato, e gli abbia detto: «Cosa vuoi fare? Vuoi dimenticare cosa è stata questa casa per noi? Vuoi restare qui da solo a piangere su ciò che non hai più? Vuoi lasciare che tutto quello che abbiamo costruito insieme finisca con me o che, peggio ancora, si trasformi in macerie sotto cui rimarrai, stanco e sconfitto? Non si può. Devi farti venire un’idea, devi partire da ciò che eravamo. Anzi, no, parti da ciò che siamo. Non lasciare che il troppo dolore ammuffisca le pareti, non lasciare che il silenzio cancelli il rumore delle risate dei nostri figli, né  che il senso dell’ingiustizia copra di polvere la nostra storia e la nostra vita».

Poi deve essersene andata. Papà deve avere guardato fuori, e ha visto l’arcobaleno, che mamma ha scelto come miracoloso ponte per ricordarci che, nonostante tutto, siamo ancora noi, tutti insieme, dagli opposti lati di uno stesso arco nel cielo.

È stato così che la mia casa, la nostra casa, è diventata Casa Claudia: un b&b. Una stanza in affitto, lenzuola pulite, una torta fatta in casa, due bicchieri e una bottiglia di vino; un bollitore, asciugamani profumati, un diario per gli ospiti; le guide della città che papà ama così visceralmente. Perché questa è la sua storia: una storia di condivisione e di accoglienza. Casa Claudia è luogo dove riposare, ritrovarsi, sentirsi a casa, ma non una casa qualunque. Che tu arrivi dall’America, dall’Indonesia, dalla Turchia o da Salerno. Che tu parli cinese, tedesco o napoletano, Casa Claudia diventa subito casa tua. Perché quel signore di mezza età, con lo sguardo dolce a dispetto della sua stazza imponente, con un dolore nel cuore che non passa mai e a volte prova a travolgerlo, ha voluto fare a mamma il suo più grande regalo: ha scelto la loro casa per ripartire. Quando tutto sembra finire, l’unico modo per sopravvivere è ricominciare. E c’era un solo modo per farlo: insieme.

Ogni commento lasciato sul quaderno dagli ospiti di Casa Claudia, passati per una notte o fermatisi più a lungo, racconta di questo: della capacità di aprire la porta e di allungare una mano a chi cerca un pezzetto della propria casa durante il cammino. Come un tempo i viaggiatori stanchi trovavano il calore di un pasto e la morbidezza di un letto, oggi gli ospiti di Casa Claudia trovano una storia che scalda il loro cuore. È la storia di una vita importante, forse non sempre felice, non sempre facile, ma importante, per tutti coloro che vi hanno trovato quello che io ho avuto il privilegio di vivere ogni giorno della mia vita: un sorriso, un consiglio privo di giudizi, un piatto caldo e reso buono dall’amore, un aiuto concreto fatto di parole ma soprattutto di gesti piccoli eppure così immensi, come vuotare una lavastoviglie, aggiungere un piatto sulla tavola, preparare una torta salata. Se un giorno o l’altro vi capiterà di entrare a Casa Claudia, fate silenzio e mettetevi in ascolto: i muri vi racconteranno meglio di me questa storia. Sentirete ancora la macchina da cucire di nonna, la voce di papà che ci chiama a cena, sentirete il telefono che squilla: sicuramente cercano mamma. Sentirete qualche litigio, il rumore della lavatrice sempre in funzione, l’abbaiare di un cane, o di due, o di tre, la musica dello stereo, quello con le cassette, però. Se poi ascolterete con più attenzione e sarete fortunati, allora sentirete le ruote della carrozzina di mamma che attraversa la casa. Sentirete la sua voce che, con una punta di orgoglio, sussurrerà all’orecchio di papà: lo abbiamo sempre saputo, Sandro, che siamo una squadra fortissima.

 

 

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